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PSICOLOGIA E PSICOANALISI DEGLI OPERATORI SANITARI CHE LOTTANO CONTRO COVID-19

 

Il senso della vita nelle professioni di aiuto

Quasi ogni giorno, alla fine di un duro turno di lavoro, il singolo operatore sanitario, a volte estenuato dalla guerra anti CoViD-19, si trova a dover fare i conti con il proprio operato. Guardando all’indietro le proprie ore e le proprie azioni, cerca di capire e dipanare il groviglio di emozioni (fra le quali la paura e l’incertezza la fanno da padrone). “Ho agito bene? Ho saputo curare? Ho salvato qualcuno? Ho dato un senso alla mia vita?”.

Spicca il tentativo di cogliere l’essenza delle professioni di aiuto, essenza che risiede, per l’appunto, nella sfera emozionale ed affettiva, nella dimensione esistenziale e relazionale. Ogni “practitioner” si immerge nei “vissuti” dei propri pazienti/utenti... e, per forza, anche nei propri: vissuti che contribuiscono alla costruzione del “senso della vita”.

 

L’abisso di chi cura

Il trauma è una questione complessa, spesso trascurato nelle sue componenti di paura, fobia, dolore, ansia, angoscia, pensieri ossessivi che si ripetono all’infinito, chiusura in se stessi e isolamento nel proprio bozzolo in qualche modo protettivo, stati anche dissociativi per proteggersi, stress che diventa distress, bruciatura-fusione-confusione interiori chiamati burnout.

Aiutare può logorare. Dare può portare ad esaurire se stessi, le proprie risorse, per poi giungere a non poter più aiutare-dare. Bisogna arrivare preparati, molto preparati, per poter essere di reale aiuto alla vittima (diretta o indiretta che sia). Bisogna avere “stomaco” e lucidità, bisogna avere equilibrio personale e capacità empatica da attivare all’istante nel momento “caldo-rovente” e da continuare a somministrare nel periodo “freddo”. Partecipazione e distacco, al tempo stesso. Per non esplodere a caldo e per non implodere a freddo. Per avere, sin dall’inizio, la consapevolezza che anche il soccorritore può diventare vittima, e quindi persona bisognosa di riparazione: per non cadere nella disperazione (manifesta o silente) del terapeuta bruciato.

 

L’Eroe, la Cura e la vita ordinaria

Gli operatori sanitari nei convulsi giorni  di caos pandemico sono eroi? Individui stremati, individui che addirittura mettono a repentaglio la propria vita, individui che muoiono nell’esercizio del proprio dovere lavorativo o dovere etico-sociale: sono eroi?

L’Eroe (scritto proprio con l’iniziale maiuscola!) ha a che fare con il Mito e con il Divino... ma nella quotidianità questo Simbolo, questo Archetipo, difficilmente si possono concretizzare. Certo, la Cura è un atto extra-ordinario, potente, vitale... ma, valutato per quel che è nel quotidiano (e non nell’Immaginario che tende all’Infinito), è un atto professionale, sorretto dalla scienza e dalla responsabilità. Anche qui, oltre al doveroso e realistico omaggio a Persone Coraggiose ma non necessariamente Eroiche, si riscontra lo slancio che esalta (per tener su il morale!) e che aspira all’Assoluto.

Cosa c’è di più Eroico del lottare contro il Mostro, contro il Drago? Nulla, ma qui siamo nell’ambito di un vissuto carico di primitività inconsce (anche collettive), sì utili per incoraggiare sul momento ma poco realistiche di fronte ad un nemico terribilmente realistico e persistente (interpretato soggettivamente come “ostinato”, “cocciuto” ). È comprensibile questo vissuto, ma è frutto di un eccesso di entusiasmo, è fuorviante, anche perché rischia di non durare nel tempo...

Colui che lavora (assiduamente e onestamente) non assurge al ruolo e alla nomea di eroe, tanto meno a quella di Eroe. E allora il quesito: medici, infermieri, operatori socio-sanitari, barellieri, ambulanzieri etc. sono eroi? In senso irrazionale sì, in senso razionale no.

Eroi? Ragionevolmente no. Sicuramente da applaudire, sostenere, aiutare, talvolta anche da curare. Meritano onore e rispetto, non “adorazione” dettata da effimere inconsce pulsioni mosse dal terrore della Morte.

 

Luciano PEIRONE

Elena GERARDI